Studio Legale Internazionale

venerdì 17 ottobre 2014

Anche in Italia sta crescendo l’attenzione per il problema dell’obiezione di coscienza degli operatori sanitari, soprattutto in campo dell’aborto, nella direzione dell’applicazione sempre più disinvolta e frequente di quello che somiglia sempre più all’esercizio di un privilegio.
Il problema dell’obiezione di coscienza nasce in campo militare allorché, con la coscrizione obbligatoria, ai primi del ’900 alcuni cittadini obiettarono al servizio di leva. Quando negli anni ’60 la situazione socio-culturale mutò profondamente e le società occidentali cominciarono a perdere la tradizionale organicità sociale ed a diventare meno militarizzate, l’obiezione di coscienza al servizio militare di leva è diventata un’opzione diffusa per molti giovani cittadini.  Tralasciando le possibili osservazioni sulla sincerità di molti giovani verso l’impegno per la non violenza e la contrarietà al non-uccidere, c’è da prendere atto che la richiesta di obiezione di coscienza al servizio militare si è completamente dissolta non appena la legge statale ha abolito quello che in passato era ritenuto un sacrosanto e indefettibile dovere per tutti i cittadini maschi, ossia la difesa della patria.  Negli anni in cui in Italia veniva posto con forza il problema dell’obiezione di coscienza al servizio militare (anni ’70), in Europa occidentale e anche in Italia si procedeva alla legalizzazione dell’aborto.

I critici di allora hanno subito sostenuto che tale pratica comportasse una forma di omicidio, cosicché è stata subito sottolineata la stretta analogia tra l’obiezione di coscienza all’aborto e quella al servizio militare.  

A prescindere dalla discussione della validità dell’analogia tra aborto e guerra e sul fatto se l’aborto sia davvero una forma di omicidio, si deve prendere atto che l’analogia tra aborto e guerra è molto frequente, e che secondo alcuni essa sta alla base della clausola al riguardo prevista dalla legge 194/78 che in Italia ha legalizzato l’interruzione della gravidanza.
Sembra perfettamente legittimo e corretto che nel 1978, la legge 194 dovesse prevedere la facoltà di sollevare obiezione di coscienza per tutti i medici che già erano entrati nella professione prima dell’approvazione della legge medesima. L’avvento dell’aborto ha comportato un cambiamento significativo del compito sanitario, per cui coloro che avevano scelto di fare il medico in precedenza quando tale pratica non era prevista avevano il diritto di chiedere di continuare a lavorare sulla scorta delle regole tradizionali e di non vedersele cambiare in corso d’opera. Questa richiesta dipende dai principi generali di rispetto dei diritti acquisiti e dalla non-retroattività delle leggi. 
Ma la legge 194/78 ha concesso questa facoltà non solo a coloro che già erano nella professione sanitaria o avevano già iniziato il percorso al riguardo (gli studenti in medicina), ma a tutti gli operatori sanitari, quasi riconoscendo alla medicina uno speciale status che la colloca al di fuori o al di sopra della legge.
Se è indubitabile che l’obiezione di coscienza sia un diritto, è altrettanto indubitabile che la suddetta affermazione abbia un significato ambiguo, strettamente vincolato al contesto.
Dobbiamo ricordare che nessun diritto è assoluto, ma dipende dagli altri diritti con cui può entrare in conflitto – in questo caso la garanzia del servizio di interruzione volontaria della gravidanza – e con i doveri professionali. La 194, pur prevedendo la possibilità di ricorrere all’obiezione, traccia confini abbastanza chiari e stabilisce la gerarchia da seguire: prima la richiesta della donna, poi la coscienza dell’operatore sanitario. Tuttavia, questi confini sono violati sempre più spesso e con un’inspiegabile strafottenza.

Secondo l’articolo 9.2, gli operatori sanitari possono essere esonerati «dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente  dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento».

Inoltre «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8».  

L’obiezione di coscienza «non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo».

I confini dell’esercizio dell’obiezione di coscienza sono abbastanza netti. Il servizio Ivg dovrebbe essere sempre garantito ed è illegale che in una struttura non vi sia la possibilità di abortire.
I numeri ufficiali rimandano un aumento costante negli anni, e che ha raggiunto livelli di palese illegalità. La relazione ministeriale sull’applicazione della 194 del 2013 conferma una media nazionale che supera il 70% di ginecologi obiettori. 
Secondo i dati ufficiali, nel 2012 le interruzioni volontarie di gravidanza sono state 105.968: sono diminuite del 4,9 per cento rispetto alle 111.415 del 2011. La diminuzione è più evidente se si considera che nel 1982 sono state eseguite 234.801 Ivg, con un decremento del 54,9 per cento.
Il tasso di abortività, cioè il numero di interruzioni volontarie di gravidanza per 1.000 donne tra i 15 e i 49 anni, nel 2012 è di 7,8 per 1.000, con un decremento dell’1,8 per cento rispetto al 2011 e del 54,7 per cento rispetto al 1982. È uno dei valori più bassi dei paesi industrializzati.
È dal 1983 che il numero delle Ivg diminuisce costantemente e relativamente a tutti i gruppi di età, minorenni comprese (nel 2011 il tasso è stato di 4,5 per 1.000). Diminuiscono anche le interruzioni ripetute e quelle dopo i primi 90 giorni. Le donne straniere costituiscono un terzo delle Ivg totali, ma la diminuzione si comincia a osservare anche in questo dominio.

Volgendo l’attenzione all’obiezione di coscienza si osserva il fenomeno opposto. Negli ultimi trent’anni l’aumento è stato del 17,3 per cento.
Se si considera la nuova situazione creatasi, allora, paradossalmente, proprio l’analogia tra obiezione al servizio militare e all’aborto mostra come quest’ultima sia priva di sostegno razionale, non potendo contare su alcuna ragione valida.
Infatti, la legge circa la professione militare prevede che in essa si compiano azioni militari che possono comportare l’uccisione di nemici. Sulla scorta di questa situazione, il cittadino che sceglie di arruolarsi e di abbracciare la professione militare non ha poi titolo di obiettare all’azione militare prevista dalla professione. Il pacifista che rifiuta la guerra, ha infatti la facoltà di non arruolarsi e di scegliere un’occupazione diversa da quella militare. Se un cittadino sceglie di fare il militare, sa già sin dall’inizio che essa comporta la possibilità di partecipare ad azioni militari, e quindi ipso facto non ha senso che avanzi la pretesa di obiettare alle stesse.
Sulla scorta dell’analogia proposta dai pro-life, la stessa cosa vale in campo medico. Infatti, la legge oggi prevede che tra i compiti del medico ci sia anche l’aborto.
Un giovane che sceglie di fare il medico sa già sin dall’inizio che l’aborto è un intervento sanitario previsto dalla professione. Ove in coscienza fosse contrario a tale pratica, semplicemente sceglierà una professione diversa (analogamente a quanto avviene col servizio militare elettivo).

Anzi, l’analogia si rivela interessante perché ci porta a chiarire un ulteriore aspetto: il soldato che ha scelto di arruolarsi non ha titolo a obiettare alle azioni militari normali ma può ancora essere indisponibile a svolgere le azioni speciali riservate a gruppi scelti. Ove tuttavia optasse di far parte di un gruppo scelto, perderebbe anche il titolo di obiettare alle eventuali azioni speciali. Analogamente, un medico che sceglie la professione sanitaria non ha titolo all’obiezione generale all’aborto, ma potrebbe essere indisponibile a attuare l’intervento. Tuttavia, se opta di far parte del gruppo scelto di chi è specializzato al riguardo, in forza dell’analogia sopra ricordata è perlomeno dubbio che possa poi vantare un titolo per la pratica specifica.
Il funzionamento di società complesse come la nostra si avvale dei servizi svolti dalle diverse professioni, i cui compiti specifici e il cui coordinamento è affidato al diritto che così facendo garantisce l’efficienza della vita sociale.

Le norme giuridiche stabiliscono i doveri dei giudici, degli avvocati, degli ingegneri, dei giornalisti, dei giornalai, dei taxisti, dei militari, dei medici, dei farmacisti, e via dicendo. Non svolgere con puntualità e precisione il compito previsto è omissione di servizio pubblico, una mancanza che non è giustificata e va sanzionata perché reca danno a terzi, i quali hanno diritto alla prestazione.


Avv. Anna Realmuto


0 commenti:

Posta un commento